A come Arabia

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L’idea della “forma-dizionario” me l’ha suggerita involontariamente mio figlio. Capitava di guardare insieme il telegiornale, e se dicevano:
“bombardamenti su Sana’a oppure “combattimenti a Sirte”, lui immancabilmente chiedeva: “Papà, dov’è Sana’a?” oppure “dove si trova Sirte?”.

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L’idea della “forma-dizionario” me l’ha suggerita involontariamente mio figlio. Capitava di guardare insieme il telegiornale, e se dicevano:
“bombardamenti su Sana’a oppure “combattimenti a Sirte”, lui immancabilmente chiedeva: “Papà, dov’è Sana’a?” oppure “dove si trova Sirte?”. Mi sono accorto che le conoscevo tutte, quelle città. In alcune ci avevo vissuto, di altre conservavo un ricordo impresso in un frangente di solo poche ore. Assai umilmente, ho cercato sempre di seguire due stelle comete: Jack Kerouac e Ibn Battuta, due caratteri e due approcci diametralmente opposti. Per Jack Kerouac la meta del viaggio era la strada stessa. Ho visto coi miei occhi il manoscritto del suo capolavoro srotolato in una enorme sala. È il tracciato di un cammino di cui non ha senso cercare di individuare la meta. Ardentemente, Ibn Battuta desiderava invece raggiungere “quella” città o “quel” mausoleo, fino a quando non ci aveva messo piede. Per me il viaggio è entrambe le cose: l’atto stesso di spostarsi e l’anelito di toccare con le proprie mani proprio quella cosa e non altro. Lo stridore fra l’intimo ricordo e gli scenari tragici che avvolgono oggi molti di questi luoghi è in animo mio ciò che dolorosamente mette insieme tutto ciò.

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